Omaggio a Bill Hicks
Questo è successo quando ero su The Holographic Universe (Part Three). Solo un frammento, lui con un cappello da cowboy marrone, la camicia blu. “It’s just a ride”, diceva, la vita è solo un viaggio, una cavalcata. Mi ha toccato molto profondamente: la disperata poesia del suo –. Poi su You Tube: “Bill Hicks, Relentless“. Bill Hicks (1961-1994, the life is just a ride). Dal quel frammento sono risalito. Lui amava molto fumare sul palco (dei piccoli comedy club) dove si esibiva. “Quando San Pietro ti accoglie in Paradiso la prima cosa che ti chiede è se hai da accendere. –Vuoi dire che qui si fuma? (chiede Bill). –Certo ragazzo, per questo è il Paradiso! Vedi quelle nuvole? Non sono nuvole, è fumo di sigaretta”. Sono arrivato a lui con un percorso casuale, ma tutto collegato. “Molti indossano la croce. Pensate che se Gesù tornasse avrebbe voglia di rivederla una croce? Sarebbe come andare da Jackie Onassis con un ciondolo a forma di fucile da cecchino. Ehi Jackie che ne dici del mio ciondolo? Stavo giusto pensando a John”. Inizia a esibirsi ai comedy club all’età di 15 anni, scappando dalla finestra di casa. “Era già una superstar” commenta il fratello, “c’era la coda per vederlo”. È una mescolanza di malinconia e forza espressionista, ammirava le rockstar, l’energia dei Kiss, la dissolutezza di Jimi Hendrix. Era un “piccolo poeta oscuro”, la sua dolcezza di ragazzo riflessa in una vetrina, la vedi su Google.
David Letterman fuma un sigaro nel suo camerino, indossa una maglietta colorata: “Sento rimorso per quello che ho fatto, vorrei correggere il mio errore”. Aveva censurato la sua ultima apparizione, la dodicesima, al Late Night Show.
Durante uno spettacolo gli avevano affiancato un’interprete per non udenti: “Non c’è problema, una volta mi sono esibito per un pubblico di morti, avevo un medium di fianco a me che li connetteva. Ehi!– e guarda verso l’interprete – non è che lei mi viene sottratta dalla paga vero?”
Se ne è andato il 26 febbraio 1994, a Little Rock, Arkansas, a casa dei genitori. Sulle nuvole di fumo di sigaretta.
La mamma degli hipster è sempre incinta
Barba curata ottocentesc-patinata simil-rettangolare, bici, capelli con le onde, occhiali con montatura spessa, pantaloni stretti, camicia da boscaiolo (“plaid shirt”), cardigan, sneaker fluo o scarpe inglesi, occhio ispirato da detentore della verità, mormonico, quasi-Scientology. Canonizzato una decina di anni fa dal magazine Fantastic Man, l’hipster è dilaniato dal dubbio, tormentato fra l’istintiva ostentazione del suo stile, convinto di essere l’unico depositario del saper vivere, e la segretezza su questo stesso sapere (l’hipster è hispter in quanto nega di esserlo, un paradosso che richiama l’antinomia di Russel “la classe di tutte le classi che non contengono se stesse come elemento…”).
Spietato come un banchiere, permaloso come una pierre, presuntuoso come uno stylist, ossessionato dal concetto di “indie” (indipendente, dalle “corporation”, dal “mainstream”) attinge all’immaginario gay dal quale però prende le distanze in quanto troppo “mainstream”, si eccita coi dischi di vinile ma bighellona in giro con enormi cuffie colorate (ascoltando podcast di musica “indie”) si ciba di cose “organic” (anche semi di girasole, muffin, “smoothie” alla frutta, veg-gourmandise) e ama sedersi su panchette in legno fuori dai locali “vintage”.
Il padre di tutti gli gli hipster, o forse la mamma, è Tyler Brulè, lo spietato art-director, proto-adultescent, (ex-Wallpaper ora-Monocle), che ha reso gli ascensori con le porte d’acciaio set moda per i cappottini di Prada (tra l’altro è uno che non sbaglia un colpo quando deve farsi la valigia).
E la botta finale arriva dall’ex-yuppie cinquantenne che vede la sua trasformazione in hipster (per lui l’hipster è un “gay moderato”) come lasciapassare per un luccicante mondo omo/bi-sex cui anelava segretamente da tempo, sognandolo punteggiato di promiscue esplosioni mondan-sessuali. E allora eccolo, brizzolato e birichino, spezzare il suo stile Bardelli anni Ottanta con un paio di ridicoli bermudini blu e calza al ginocchio (fuma il sigaro davanti alla Fortezza da Basso a Pitti Uomo).
(da Style Il Giornale, gennaio 2014)
Hotel The Pestilence (intervista inventata 3)
Stufi dei soliti albergatori e chef a “km 0” ed “ecosostenibili”, abbiamo intervistato un ostelliere con tante idee originali e controcorrente. Si chiama Egidio (detto “Edgie”) Contaminati ed è l’ideatore di un nuovo format di hotellerie, il The Pestilence
Si parla molto di bio-architettura e materiali naturali. Voi che filosofia avete seguito nella costruzione del vostro hotel?
Abbiamo seguito un’idea totalmente opposta, facendo uso esclusivamente di materiali tossici, provenienti soprattutto dai paesi dell’Est europeo.
Può essere più preciso?
Recuperiamo e ricicliamo pezzi di edilizia popolare sovietica in demolizione, Gulag, macerie di guerre balcaniche.
Si potrebbe definire un’operazione “vintage” dunque, una sorta di archeologia tossica
Certamente. Noi adoriamo il “contaminato come una volta”.
Parliamo dell’arredamento delle stanze. Vi siete anche voi ispirati ad un “decor minimalista”?
Ovviamente no, le nostre stanze sono piene di oggetti, i più disparati fra loro per epoca e stile, l’occhio non trova pace, la polvere si accumula dappertutto.
Le casse in cartone abbandonate nelle stanze fanno parte del progetto?
Proprio così. Avrà notato che alcune sono mezze aperte, con lo scotch strappato, impolverate, quello che vogliamo comunicare è il sentimento di precarietà di un uomo senza pace, che continua a traslocare, senza mai trovare il tempo di disfarle queste casse. Il nostro obiettivo era trasmettere al cliente questa stessa agitazione.
Per la zona wellness avete scelto materiali naturali?
Sì, abbiamo puntato sulla purezza dell’amianto grezzo.
Dicono che rilasci particelle dannose
É vero, ma lo fa molto lentamente, per questo ci definiamo “Slow-toxic”.
Ci dica del vostro ristorante, il “Buon Risveglio”
Il Buon Risveglio è il nostro fiore all’occhiello. È un ristorante “km 1000” totalmente eco-insostenibile, la maggior parte dei prodotti proviene dalla Cina, da allevamenti ad alta intensità. Abbiamo poi un menu ristretto con le specie in via di estinzione che ci mandano bracconieri di fiducia dai Parchi Nazionali. Gli ortaggi invece, rigorosamente OGM, arrivano dal nostro orto di terra all’uranio impoverito, curato da una cooperativa di razzisti sudafricani.
Cosa pensa dei vegani?
Ma chi, gli omini grigi delle astronavi?
(da Style Il Giornale, settembre 2013)
I furboni dello “street-food”
Una nuova grossa menata si profila all’orizzonte: lo street-food, l’ultima frontiera del “cibo parlato”. Celebrato in tv dai nuovi format-chef tatuati ecco il nutrimento obbligatorio per il vero maschio, la Dieta Dunkan del tamarro in canottiera. Ed ecco gli ambulanti, divinizzati dai media come santini nella processione di paese, che subito salgono in cattedra, immediatamente si fanno più altezzosi degli chef stellati, più severi di mille Cracco, più sgrammaticati (ma meno divertenti) di Joe “mihaidiluso” Bastianich, ti fanno cadere dall’alto ‘sto panino con la “meusa” che neanche Heinz Beck alla Pergola Hilton se la tira così tanto.
E poi c’è tutto il rigido cerimoniale che circonda lo street-food, il ferreo bon-ton della strada: ti devi sbrodolare, mangiare con le mani, ungerti, mostrare di avere sempre fame, ordinarne ancora, alzare gli occhi al cielo mentre mangi, dare dei morsi enormi con la testa piegata di lato, intervallare grosse sorsate di birra alla bottiglia. Perchè l’ambulante del food non ti vende semplicemente un panino ma un’intera idea di mondo. Insieme al cibo ti arrotola nella carta giallina da focaccia il suo stile di vita, la sua idea di virilità, la vecchia e menosa canzone della “scuola della strada”, e mentre rigira il mestolone della retorica finge di essere umile ma si sente più figo di Brad Pitt in “The Snatch”. Occhiuto, implacabile, saputello come Massimo Cacciari, fanatico come un vegano, ti controlla se segui questo suo galateo.
E allora per lo stesso principio per cui in un locale iper-formale ti verrebbe voglia di mangiare con le mani qui sei tentato di chiedergli le posate, ti balena l’idea di spingere sull’acceleratore della leziosità, magari domandandogli “la forchettina quella piccola” o “il cucchiaino da the”, se non un “piccolo asciugamanino tiepido”, “inumidito con essenza di cedro”, per “nettare le labbra”.
Presentato in tv, il cibo da strada, con le sue assurde e inflessibili regole, è più che altro grasso che cola.
Un grasso patinato, fighetto, Istagram.
(da Style Il Giornale, agosto 2013)
Le nove sfumature della realtà
Il pistacchio di Bronte
Esistono pistacchi del tipo “non-di bronte”? Mi piacerebbe provarne uno, tanto per sentire la differenza. Gustarmi un gelato controcorrente, al “pistacchio certificato non-di-bronte”.
Morgan Freeman
Come per i pistacchi: esistono thriller senza Morgan Freeman?
Giornalisti/inviati
Il giornalista inviato in “teatro di guerra” ha il gilet panna e la pashmina d’ordinanza, sempre leggermente abbronzato, quasi dorato, con l’espressione compiaciuto/preoccupat-seriosa che dice “Ehi, voi culoni in studio, c’è qualcuno di più giornalista di me nei paraggi? Le sentite le bombe in sottofondo, razza di furfanti?”
Corsie preferenziali
Per il prossimo sindaco di Milano: la telecamera “anni-Ottanta-style”, la Dogui-camera: legge la targa, risale al tuo conto e ti fa un bonifico.
L’intervista dei figli di
Partono con la solita menata che se sei figlio di qualcuno è tutto più difficile. “Devi sempre dimostrare qualcosa”, “tutti ti aspettano al varco”. E certo che ti aspettano al varco, facendo a gara per aprirtelo questo varco, per spalancartelo davanti. Per sospingerti oltre, questo “varco”.
Super Politically Correct, e anche un po’ design
Un crime-designer “migrante” che è arrivato qui da noi per un “progetto di sfruttamento”. É un pappone albanese, ma sta in Zona Tortona, con la borsetta marca Freitag a tracolla.
Gelato
Prima di ordinarlo tieni presente che i gusti alla crema sono di destra, quelli alla frutta di sinistra.
Happy Hour
Nato come “due cocktail al prezzo di uno” è diventato “un cocktail al prezzo di due”. Più patatine. Bad Hour.
Scooter/Copertina
La copertina sullo scooter è la versione dinamica del borsello da uomo. Non fare il furbo, l’hai sempre saputo.
Poesia Finale
Ognuno sta solo davanti al suo Bancomat / Trafitto da un Iban / Ed è subito in rosso.
(da Style Il Giornale, luglio 2013)
L’alchimia del “particolare”
Può definire un vino e un oggetto di design, un nuovo formato di pasta e un quadro di Picasso, uno spot pubblicitario e un capo d’abbigliamento: è un aggettivo senza confini e senza significato, vuoto ma saccente, subdolo e generico, che ti attrae con la sua flessibilità, ti promette una nota estrosa, ma alla fine, come un patto faustiano, ti ruba l’anima dell’espressività. Dietro il suo aspetto innocuo, quasi servizievole, cela la sua vera essenza di pietra filosofale inversa che trasmuta l’oro dell’originalità nel piombo quotidiano del gergo da happy-hour. Livella i concetti verso il basso: imbriglia, appiattisce, uniforma in un’unica categoria il meraviglioso e l’insolito, l’eccentrico e il bello, l’eccellente e il gradevole, è capace di fondere nel suo crogiolo di insignificanza le bizzarrie dei mostri gotici e l’ultima lampada di Philippe Starck, confonde il dandy col trendy, riporta il sublime nell’ambito dell’artigianale, rasenta il “carino” ma si inventa una marcia in più. È più “particolare”. Ma sotto questa maschera di onnipotenza significante il “particolare” si rivela inadeguato a connotare, può soltanto alludere, finisce per degenerare nel suo contrario, rappresenta qualcosa “in generale” senza entrare nei particolari. Regna in un demi-monde linguistico che non ha né il rigore accademico né la spontaneità popolare. Pretenzioso come una pizza al salmone, il “particolare” è un atteggiamento prima ancora che una parola, un voler dimostrare che anche davanti a ciò che non si riesce a descrivere c’è pur sempre qualcosa dire: “particolare”.
(da Style Il Giornale, marzo 2013)
I contributors
Una nuova specie di giornalista-mutante si aggira fra le pagine dei magazine: il contributor.
Confinati nei loro box in apposite pagine fra pubblicità di orologi e sciarpone in cashmere, i contributors, spietati come una gang di latinos, non risparmiano al lettore i particolari delle loro vite da romanzo: cresciuti fra cineprese, luci e set, con madri attrici, padri ambasciatori, nonni fotografi. Più avventuroso di Hemingway, più eccentrico di Tom Wolfe, il contributor dipinge la sua stessa vita con pennellate da maestro, sfumando sapientemente fra l’esclusività delle sue esperienze, dai lodge in Sudafrica ai resort alle Maldive, e il suo voler apparire “alla mano”, quasi simile a te. Ma con una marcia in più. Perchè oltre a vivere “fra Londra e New York” si dedica all’orto del casale di famiglia nelle Langhe, si prende cura del cane Leo e alleva tre figli (probabili contributors del futuro). Il vero contributor è ossessionato dai viaggi, ti spiega che non lo troverai allo stesso indirizzo “per più di due settimane”, che “si diverte a vivere nel mondo”, che “adora fare e disfare le valigie” anche perchè” è “sempre a caccia di personaggi intriganti” ama le “parentesi parigine” e i loft di Manhattan.
Il contributor ti regala perle di saggezza alla Paulo Cohelo: “per viaggiare servono solo scarpe comode e un paio di libri”, ti confessa che “si diverte a creare gioielli fatti a mano” e ti sferra il colpo finale con uno spudorato “ama pochissimo parlare di sè”.
Saranno loro i protagonisti del prossimo film di animazione della Pixar: Contributors contro Alieni.
(da Style Il Giornale, gennaio 2013)
Le super-trombette
Le trombette quando vedono una supermoto ti dicono che loro una cosa del genere non la vogliono, perchè se no andrebbero troppo forte. Vogliono farti capire che loro virilità, che tu forse non noti, è un vulcano dormiente: una volta risvegliata li trascinerebbe verso imprese eroiche e a rischio morte. Loro sono molto più coraggiosi e spericolati del padrone della moto, cioè di colui che la guida davvero, ma avendo paura della loro mancanza di limite, alimentata da una virilità infinita, semplicemente rinunciano alla Ducati Monster e girano in Opel Ascona. Son sempre loro che ti spiegano che “l’amicizia fra uomo e donna non può esistere”. E certo, perchè è talmente indomabile quel dragone fiammeggiante che hanno sotto, eruttante ormoni e desiderio, è così potente quel pitone, quell’anaconda delle paludi, quello pterodattilo preistorico, goloso, insaziabile, dotato di volontà propria, che non gli consente di avvicinarsi a nessuna donna, nessuna, senza sentire un impulso potente e primitivo di accoppiamento. Per questo, loro alle donne non si avvicinano nemmeno. Loro già da ragazzi non si facevano le canne e non bevevano, perchè, anche lì, ti spiegano che poi non gli sarebbe bastato, che sarebbero passati a coca, acidi, cocktail di droga e psicofarmaci, speedball, freebase. E certo, mica son sfigati e precisetti come te, che ti dai dei limiti. Loro per tenere a freno questa vitalità prorompente che li spingerebbe sempre oltre i limiti hanno deciso che è meglio non fare niente, si buttano sul divano e danno un’occhiata alla De Filippi. E son contenti così.
(da Style Il Giornale, dicembre 2012)
The Secret
Quando entro il libreria mi lascio alle spalle gli scaffali traboccanti di “gialli religiosi”, non mi importa più di confraternite di frati che custodiscono libri segreti, giro alla larga da saghe familiari dell’Italia del dopoguerra, da thriller scandinavi, affreschi storici sudamericani, “storie mozzafiato”, “esordi sorprendenti” e “luminosi acquarelli sentimentali”. E mi fiondo nel reparto della grande letteratura, quella che mi fa sognare. O meglio, visualizzare. Perchè questo è il segreto di The Secret: visualizzare se stessi come se già si fosse ottenuto il successo desiderato. Mi aggiro fra i giganti del coaching e i maestri della cabbala, estasiato dal sorriso maliardo di Mr Miliardo, Dereck Chopra, leggermente abbronzato, avvolto in lini color pastello sullo sfondo di ville traboccanti di allievi ricchi e felici E mi visualizzo. Eccomi scendere da una Bentley color lime, sorridente come un guru, avvolto in una pelliccia di lupo, il mio autista è un indiano raffinatissimo con un turbante in seta. Sono talmente ricco che l’indiano stesso è entrato nella classifica dei primi cento più ricchi del mondo di Forbes.
Ho una carta di credito fatta di luce, palpitante, golosa, quasi viva. I bancomat hanno orgasmi meccanici quando avvertono la mia presenza nel raggio di 500 metri. Mi visualizzo in paradisi wellness, nelle saune dei grand hotel di montagna.
Creo affreschi onirici dove spendo somme favolose in escort, guide alpine e fisioterapisti.
E qualcosa prima o poi arriverà.
(da Style Il Giornale, novembre 2012)